27 Luglio 2024
LA RIVISTA: GLI ARTICOLI

SIRIA. LA PANTOMIMA DELLA LINEA ROSSA

Sei anni di guerra civile, 470.000 morti – di cui 70.000 per carenza di servizi di salute, farmaci, acqua potabile e condizioni igieniche, 145.000 cittadini scomparsi, quasi 2 milioni di feriti, 6 milioni di sfollati interni, il 10 per cento dei siriani rifugiato, 13 milioni di persone in stato di emergenza umanitaria, e circa 5 milioni di queste in aree inaccessibili agli aiuti.  Secondo il Centro Siriano di Ricerca Politica, in cinque anni si è indotto un costo economico di 255 bilioni di dollari, in un paese dove la disoccupazione supera il 50 per cento, un abbondante 80 per cento vive in estrema povertà, i prezzi al consumo solo saliti del 53 per cento l’anno scorso, la spesa per l’acqua assorbe un quarto degli ingressi famigliari, e il cibo viene usato come un’arma.  In Siria c’è una generazione perduta di 2 milioni di ragazzi e ragazze che hanno abbandonato la scuola, senza sapere quando la potranno riprendere.

Dov’è stata la “giusta risposta” ai crimini perpetrati sinora?  Dove sarebbe la “linea rossa”?  Questa sembrerebbe piuttosto una linea che si muove in avanti e indietro, assecondando umori, interessi e calcoli diplomatici, con il fine sia di riposizionamenti esterni, con prove di forza, messaggi trasversali, e misure tattiche, sia di riequilibri interni, con ricompattamenti sociali e politici, e la gestione dell’opinione pubblica.  Fonti ufficiali rivelano che il Pentagono avrebbe pianificato un numero incursioni in Siria sotto l’amministrazione Obama.  Il bombardamento della base aerea siriana, da cui è partito l’attacco chimico nella provincia di Idlib, è nel “vitale interesse della sicurezza” della nazione, ha affermato Trump.  Cosa si sta cucinando in medio-oriente?  Non convince l’immagine degli Stati Uniti improvvisamente scandalizzati per la morte di bambini – evento sempre agghiacciante e inaccettabile, quando Obama prima e Trump dopo hanno spalleggiato la sanguinosa repressione in Yemen con 10 milioni di minori coinvolti, per le stime dell’Unicef.  Dove sta allora la “linea rossa” per la belligeranza saudita in Yemen?

Nel 2013, Obama davanti a 1.300 caduti per un raid chimico, nella cintura agricola del Ghouta alle porte di Damasco, dopo aver fatto la voce grossa in mondovisione, cambiò idea e decise di non passare all’azione, rimettendosi alla Russia affinché interceda con la Siria per lo smantellamento dei depositi.  La conta dei morti è cinica, ma oggi siamo di fronte a una strage di dimensioni inferiori, con una eco mediatica sproporzionata rispetto ad altri avvenimenti in Siria e nel mondo.  La riunione del Consiglio di Sicurezza sul bombardamento statunitense si è svolta in un clima da guerra fredda con accuse alla Russia di correità in violazioni internazionali.  Del resto, il secondo mandato di Obama era stato deteriorativo delle relazioni con la Russia, che si è ripresa la veste di super potenza, consegnando una situazione di ostilità.  Gli Stati Uniti giurano di avere prove della colpevolezza del governo siriano, ma non le hanno ancora mostrate, e reiterano le minacce.  E perché Bashar al-Assad, sul quale gravano colossali responsabilità storiche, ma che sprovveduto non è, dovrebbe fare uso di armi chimiche nel momento a lui maggiormente favorevole?  Chi ci perde e chi ci trae profitto da un indebolimento o virtuale esclusione della Russia dal negoziato di pace?  Quali poteri avanzano in Siria con l’uscita di Assad?

Dinanzi alla complessità delle domande da porsi nel contesto attuale, la retorica dei capi di stato europei sul divieto dell’uso delle armi chimiche – sacrosanto, e la meccanica sicurezza con cui attribuiscono doli unilaterali, lasciano perplessi sulla capacità della politica estera comunitaria di operare con indipendenza e qualità.  D’altra parte, nonostante legittimi sogni e ambizioni, non sono queste vicende su cui l’Europa, e la sua alta diplomazia, abbia qualcosa da dire o possa in effetti fare qualcosa.  E pur se fosse vero il contrario, in sei anni non hanno certo dato segni di vitalità.  Noi fondamentalmente ci occupiamo di stringere sodalizi con regimi anti-democratici o stati fantoccio per tenere i disperati lontani da casa nostra, non importa se in lager dove sono soggetti a ogni tipo di abuso.   Fa sorridere questo repentino “tutti con Trump” dopo la pioggia di palesi giudizi di inaffidabilità, pericolosità e inadeguatezza, arrivati persino dal presidente del consiglio europeo Tusk.

Ripercorriamo le tappe del conflitto.

Proteste pacifiche scoppiate in Siria nel 2011, sfociate diciotto mesi dopo nella dichiarazione dello stato di guerra da parte della Croce Rossa, danno vita a un’ampia contestazione riformista che non riuscirà a prendere una forma coesa.  Il governo reagisce con violenza, senza fare alcuna concessione, e prosegue sul piano militare la politica di repressione del dissenso interno che da dodici anni aveva condotto attraverso l’intelligence.  L’Occidente non sa trovare una strada nel sostentare il movimento pacifico.  Del resto, il presidente Assad ha l’appoggio di settori rilevanti della popolazione al contrario di quanto avvenuto in Tunisia, non perde la fiducia del proprio esercito o di alleati stranieri come in Egitto, ed è ben equipaggiato per resistere a una rivolta.  La Siria è ingabbiata nei settarismi che consumano il medio-oriente, in particolare l’Iraq, ulteriormente complicati dall’invasione statunitense nel 2003.  La maggioranza degli insorti è immerso nella narrativa sunnita contro un esecutivo che rappresenta la dominante minoranza Alawita, una branca dell’Islam sciita, al comando da 47 anni.

Nel paese si costituiscono quasi contemporaneamente il Libero Esercito Siriano (estate 2011) e i gruppi jihadisti di Ahrar al-Sham (fine 2011) e il Fronte al-Nusra (inizio 2012).  Un gettito caotico di fondi entra nel paese proveniente da egemonie regionali – Qatar, Arabia Saudita, Turchia, donatori individuali, e la diaspora siriana.  A giugno del 2014, viene fondato il “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi fra la Siria e l’Iraq.  A settembre dello stesso anno, comincia l’offensiva aerea della coalizione capitanata dagli Stati Uniti sulle posizioni del sedicente stato islamico.  Per l’Occidente la pacificazione in Siria, le cause e le ripercussioni del conflitto, non sembrano essere una priorità, in comparazione alla sfida diretta dei gruppi jihadisti all’Europa e agli Stati Uniti.  L’intervento non si dimostra tuttavia efficace, perché gli Stati Uniti si preoccupano di non favorire Assad.

Il presidente conta con gli Hezbollah libanesi e altre milizie sciite.  Il Libero Esercito Siriano diventa progressivamente più confessionale e ingrossa le file con volontari provenienti da paesi sunniti e soldati prezzolati dalle monarchie del Golfo.  Molti dei suoi militanti defezionano nelle formazioni islamiste, incluse Isis e al-Qaida, e si osserva grande fluidità fra i combattenti.  A settembre del 2015, la Russia risponde alla richiesta di aiuto siriana, nominalmente per contrastare i gruppi terroristi che hanno guadagnato terreno.  Le operazioni sono coordinate con gli Stati Uniti.  Il “califfato” retrocede e si disperde.  A dicembre del 2016, viene ripresa la parte est di Aleppo nelle mani delle forze di opposizione.  Russia e Turchia negoziano un nuovo cessate il fuoco.  Con la caduta di Aleppo, il governo ha le quattro città principali e l’armata kurda è situata in gran parte della regione nord-est della Siria e il confine con la Turchia.  Ma a detta dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, i ribelli e i loro alleati jihadisti dominano circa il 15 per cento del territorio e i soli militanti dell’Isis, malgrado significative perdite negli ultimi due anni, mantengono ampie zone della Siria centrale e settentrionale.

Riprendiamo i fili principali.

Nella geopolitica del medio-oriente la Siria è un paese strategico.  Con l’Iran e la parte meridionale del Libano, dove Hezbollah ha una presenza muscolare, forma un cuscinetto sciita allo strapotere degli alleati arabi degli Stati Uniti.  La Siria è l’avanguardia della politica anti-israeliana nel vicino oriente, dopo che negli anni settanta Egitto e Giordania hanno avviato un processo di normalizzazione nei rapporti con lo stato ebraico.  Le alture del Golan, conquistate da Israele con la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, delle quali la Siria reclama la restituzione, simboleggiano una spaccatura mai ricomposta fra i due stati.

Molteplici elementi hanno contribuito a includere la Siria nella black list statunitense: il sostegno politico, economico e militare al partito libanese Hezbollah; la protezione dell’organizzazione paramilitare palestinese Hamas; l’ostilità verso Israele, stato con il quale, sin dal 1948, la Siria non ha firmato alcun accordo di pace; la sintonia con l’Iran, il cui peso è cresciuto con il crollo del regime iracheno; e il transito di armi irachene per Hezbollah.  A questi va aggiunto l’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri a Beirut nel 2005.  Le indagini hanno messo in luce intrecci politici con la famiglia di Assad.

L’Iran ha provveduto con linee di credito e petrolio al mantenimento dell’economia della Siria, ha trasferito truppe di terra e armamenti, saldando l’asse Damasco-Teheran-Mosca.  L’Arabia Saudita ha osteggiato l’influenza dell’Iran nel levante arabo, aumentata con il decadimento dell’embargo americano, finanziando massicciamente svariati gruppi di ideologia estremista islamista attivi in Siria, e sperando di inserirsi nella trattativa di pace e la fase di ricostruzione.  La Turchia ha coperto l’intero campo, commerciando illegalmente il petrolio dell’Isis, permettendo il passaggio di foreign fighters dall’Europa alla Siria e ritorno, contenendo i kurdi ingaggiati contro il sedicente stato islamico, per successivamente lanciare un’offensiva anti-Isis e prendere 2.000 chilometri quadrati sul lato del confine siriano non occupato dai kurdi, provocando controversie con l’Alleanza delle Forze Democratiche Siriane.

L’inattività dell’Europa, e le titubanze degli Stati Uniti di Obama, sulla questione siriana li ha marginalizzati nell’ambito dei colloqui di pace, nei quali Russia, Iran e Turchia hanno assunto il ruolo arbitrale. Se i primi non hanno mai deciso cosa volessero fare in Siria, oltre a reiterare una generica volontà di rimuovere Assad; Russia e Iran hanno sempre saputo esattamente cosa fare, ovvero preservare un regime amico o dimostrare il proprio ritorno nella cornice internazionale, e hanno centrato in pieno il bersaglio.

A gennaio di quest’anno, Russia, Turchia e Kazakhstan hanno ospitato l’unico faccia a faccia fra i ribelli e il governo dall’avvio degli scontri, seguito da nuovi colloqui mediati dalle Nazioni Unite a Ginevra che l’inviato Staffan de Mistura ha definito più produttivi di quanto si potesse immaginare per l’implementazione del Comunicato di Ginevra del 2012 che presume un assetto istituzionale di transizione con piene funzioni esecutive, formato sulla base di un consenso mutuo, e conducente a elezioni democratiche.  Poi cinquantanove missili Tomahawk sferrati dalle navi di stanza nel Mediterraneo, durante i 100 giorni dall’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, aprono uno spartiacque.

Tracciamo alcune conclusioni.

La saga delle risposte di Europa e Stati Uniti sull’uso di armi chimiche, da entrambe le parti, riassume un quadro di enorme inconsistenza.  La politica di Trump sulla Siria è ancora inesistente.  In questo panorama desolante, e al cospetto di una tragedia umanitaria, viene creato un incidente divisivo che determina ulteriori tortuosità.  A livello di azione si è trattato di un “attacco intelligente”, diverso dai lanci indiscriminati dei droni di Obama in Pakistan, Yemen e Somalia, che hanno causato centinaia di vittime.  E se gli impegni diplomatici fra Stati Uniti e Russia non vengono cancellati, i protocolli di collaborazione sospesi ma non revocati, è nel teatro di guerra che le conseguenze sono poco controllabili. La Turchia è da considerare un sorvegliato speciale.  Erdogan, con l’abbattimento del jet russo nel 2015, ha fatto temere un confronto tra la Russia e la Nato, di cui la Turchia è un membro non trascurabile, ed è un attore che potrebbe beneficiarsi da un crescendo.

Beffardamente, cavalcando una di quelle che gli sono imputate come debolezze, Trump finisce per essere più efficace di Obama nel ricollocare gli Stati Uniti sulla scena.  Trump in questa congiuntura pare sulla linea di Clinton e le sue rappresaglie dopo gli attentati del 1988 alle ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya.  E con la reazione del tutto scontata e stereotipata dell’Unione Europea, al mostrare il pugno, ne incassa l’approvazione.  La dinamica anti-Assad è destinata a fomentare divergenze fra Russia e Iran.  E Mosca potrebbe ipotizzare una transizione che contempli la deposizione del presidente siriano.  Va anche detto che alcune informative proprio della scorsa settimana hanno segnalato passaggi di droni e forze speciali russe a 100 chilometri dal confine libico.  La Russia è avvertita.  La Cina e la Corea pure (mentre scriviamo una portaerei americana si sta muovendo verso la penisola coreana).  Arabia Saudita e Israele tranquillizzati. Negli affari strategici l’imprevedibilità è un requisito prezioso, in questo caso ha spiazzato nemici e confederati di una comunità mai così frammentata e priva di leadership.  Il conflitto si complica, nuovi fronti potrebbero spalancarsi, ma la pace, e la difesa dei civili, non erano l’obiettivo.

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