Lettera a Marco Pannella per i suoi 90 anni: “Tu che sapevi vedere là dove tutti guardano, hai insegnato che il dialogo è possibile. Di fronte al coronavirus, riprendiamo il tuo appello: ‘Stati uniti d’Europa, adesso!”
Buon compleanno, Marco.
Chissà se hai notizie di quello che accade qui da noi. Magari sì, capace come pochi di “vedere”, là dove un po’ tutti guardano; di prestare attenzione ai “segni” rivelatori e anticipatori, di ascoltare e non semplicemente sentire; di dire e non solo parlare. In tanti dicono che si combatte una guerra. Guerra globale, più terribile di quella che si poteva immaginare, perché non esiste un nemico appartenente al nostro “genere”.
Tu parole come “guerra” e “nemico”, le detesti. Per te non ci sono “nemici” da combattere, perché troppe cose anche con loro si possono e si devono fare; semmai sono avversari e la vera vittoria consiste nel voler “con/vincerli”.
Hai dato e insegnato a dare corpo a quel “Spes contra spem”, che hai mutuato da Paolo di Tarso: quel suo passaggio della “Lettera ai Romani” dove si riferisce all’incrollabile fede del profeta Abramo: “Ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto…”.
Curioso che tu, il vieto anticlericale, come venivi definito, il laico per eccellenza, seguace e figlio di quell’Italia che si snoda da Felice Cavallotti a Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio… proprio tu coltivassi straordinarie amicizie con personaggi il cui pensiero e la cui azione è un tutt’uno con un sentimento e una fede di credente. Del resto, non ti stanchi mai di citare Benedetto Croce, il suo “Perché non possiamo non dirci cristiani”… Quante volte hai evocato, assieme a Giordano Bruno, don Romolo Murri; ne discutevi con il “cinico” Giulio Andreotti, grato per quel suo libretto: “I quattro del Gesù, storia di un’eresia”; e ti riconoscevi nel cristiano socialista abruzzese lui pure Ignazio Silone, nei suoi “cafoni”.
Almeno una volta l’anno partivi dalla breccia di Porta Pia, simbolo dello Stato laico; per confluire nella piazza San Pietro, simbolo della cristianità: a ricevere il “saluto” di quel Karol Wojtyla che eletto Pontefice salutasti: “Dio ce l’ha dato, guai chi ce lo tocca”.
Vi siete “ri/conosciuti”, quando entrambi siete insorti contro lo sterminio per fame nel mondo. Ti si guardava increduli, ci vedevi stupiti. Eppure quando di getto, su una bustina di sigarette buttasti giù quell’appello contro la nuova, quotidiana Shoah, te lo trovasti accanto, quel Pontefice; e accorsero centinaia di premi Nobel superando diffidenze, ostilità, rivalità, fedi, differenti credi.
Ti annoieresti tu per primo, se ti elencassimo i tanti diritti di cui, grazie a te, beneficiamo.
Certo: significa qualcosa se di volta in volta ti sei trovato accanto Norberto Bobbio e Adriano Buzzati Traverso, Guido Calogero e Elena Croce, Bruno De Finetti e Loris Fortuna, Eugène Ionesco e Lelio Luttazzi , Domenico Modugno e Eugenio Montale, Indro Montanelli e Pier Paolo Pasolini, Leonid Pliusc e Leonardo Sciascia, Ignazio Silone e Altiero Spinelli, Enzo Tortora e Elio Vittorini…
L’Italia, gli italiani cui vuoi bene e che te ne vuole: quella di Argentina Marchei, e di Felice Braibanti, di suor Marisa Galli; di don Marco Bisceglie, di Luca Coscioni e di Piergiorgio Welby. L’Italia dolente e sofferente.
Come hai scritto, una volta? “…Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica… Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti…credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo…”.
Hai insegnato e mostrato che il “dialogo” è possibile. Tu e pochi altri avete indicato una strada, un percorso; un obiettivo: gli Stati Uniti d’Europa: la Grande Patria Europea, mai come in questo tempo, da opporre alle sempre insorgenti, miopi, sciagurate tentazioni di un’Europa delle Piccole Patrie. Una prima tappa, prima di arrivare a quella “Costituzione per il Mondo” su cui nel 1948 cominciarono a lavorare Giuseppe Antonio Borgese, uno dei tredici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, assieme a Piero Calamandrei, Thomas Mann e dieci studiosi e luminari del diritto americani. Fin da allora avevano colto il nocciolo della questione: “(…) Non è una esagerazione il supporre che la presente Costituzione possa fornire sagome e capisaldi di studio, e istigare a ulteriori discussioni del problema del Governo Mondiale…Fuor da quadro di tal problema generale è impossibile, non che risolvere, neppure tentar di risolvere i singoli problemi che travagliano il nostro tempo”.
Hai pazientemente spiegato: “Dove il diritto alla vita non ha forza con gente che possa garantirlo, i diritti di coscienza, i diritti religiosi, di sviluppo, di pensiero, diventano sovrastruttura astratta, priva di coerenza e di forza teorica e pratica. Il disordine internazionale è imposto e alimentato dagli interventismi giuridici statalistici, da regimi proibizionistici che conferiscono essi stessi forza tremenda e incontrollabile ai fenomeni che pretendono di vietare”.
Avevi compreso come sia necessario “agire con efficacia e forgiare strumenti che la consentano. C’è forse una nuove epopea da rappresentare, nuovi orizzonti da tentare, nuove migrazioni, nuovi western, nuove fedeltà da affermare. Esiste una possibile salvezza, ma dobbiamo sapere che i nuovi «pascoli del cielo» saranno esplorati soprattutto nelle coscienze e nelle opere. Di questo nuovo esistono alcuni segmenti, e questi segmenti sono destinati a essere spazzati via, o a essere assunti, trasformati, potenziati da altri…”.
Siamo consapevoli che si tratta di “imprese” più difficili di sempre.
C’è chi ci ricorda come la pandemia da immunodeficienza acquisita HIV- AIDS, apparsa nel 1981, ha provocato milioni di morti; ancora nel solo 2018 si contavano 770.000 morti e 1,7 milioni di nuovi contagiati per un totale di 37,9 milioni di persone che vivevano con l’infezione per la quale non c’è ancora un vaccino. L’infezione da coronavirus è ben altra cosa, per come avviene il contagio e la virulenza del virus. Una pandemia ampiamente annunciata: non come possibile ma come certa, solo che non si sapeva quando sarebbe esplosa; sappiamo che ce ne saranno altre.
Caro Marco, hai saputo analizzare la realtà, prevedere disastri puntualmente avvenuti, elaborato proposte per prevenirli. Ricordare che l’avevi detto, non è sterile rimpianto di un passato passato, ma premessa necessaria per immaginare un diverso futuro. Le proposte di “ieri”, sono valide ancora “oggi”.
Hai avuto l’enorme merito di individuare: la lotta per istituzioni edificate sullo Stato di diritto laico, democratico, federalista, e quindi fondate sul diritto alla conoscenza: uniche alternative alle forme più estreme totalitarie, autoritarie e militariste, e a quelle più moderate, che oggi incarnate, per restare in Europa, nelle politiche degli oligarchi polacchi e ungheresi. La questione dei diritti umani o è posta in termini di diritti universali, che valgono per tutte le persone ovunque si trovino (e quindi il dovere di “ingerenza” nonviolenta nei confronti di chi quei diritti viola), o non è.
Il coronavirus è la cartina di tornasole di un mondo che si sviluppa sulla base di scelte politiche determinate da una certa finanza e non da chi è titolare della rappresentanza politica.
Già nel 1979 denunciavi che le decine di milioni sterminate dalla morte per fame, più che dalla penuria di alimenti erano la conseguenza e il risultato di un vero e proprio “disordine economico internazionale“. Un disordine che continua a sconvolgere la vita del pianeta.
Diventa quasi ridicolo oggi dover riformulare l’appello: “Stati Uniti d’Europa, adesso!”. Lo diventa perché non c’è uomo “di Stato”, “di Governo”, dirigente politico che tragga dall’infezione planetaria che si patisce la prima, vera lezione: i grandi problemi non conoscono frontiere, e possono essere risolti solo abbattendole, non costruendone di nuove.
È una piccola parte di quello che, in questo tempo, vogliamo dire di te, caro Marco. Per degnamente festeggiare i tuoi 90 anni.