11 Dicembre 2024
LA RIVISTA: GLI ARTICOLI

Brexit, UK e UE

Confesso che il dibattitto sulla Brexit mi appassiona relativamente, così come mi appassionano (ancor più) relativamente i sondaggi pre-referendum del 23 giugno che vedono i ‘leave’ in vantaggio e i ‘remain’ in recupero (o viceversa). Ragion per cui non mi lancerò in previsioni sugli scenari futuri, per i quali rimando allo studio realizzato da PWC nello scorso mese di marzo http://news.cbi.org.uk/news/leaving-eu-would-cause-a-serious-shock-to-uk-economy-new-pwc-analysis/leaving-the-eu-implications-for-the-uk-economy/

Trovo più interessante fotografare i rapporti fra UK e UE e le peculiarità dell’economia inglese rispetto a quelle degli altri Paesi, in special modo nell’ottica di sfatare alcuni miti che in queste ore stanno trovando alimento nelle parole dei politici pro e contro la Brexit.

Prima di tutto occorre individuare quali sono i principali temi su cui si sviluppa il dibattito. Quando all’indomani del voto 2015 promise agli inglesi un referendum sull’uscita dall’UE, questi temi erano sostanzialmente:

  1. i) accesso al welfare inglese per i migranti
  2. ii) partecipazione dell’UK ai programmi di aiuto ai Paesi UE in difficoltà

iii) Integrazione UE in ordine a politiche monetarie, vigilanza e politica estera

L’accordo raggiunto da Cameron il 19 febbraio disinnesca nei fatti i 3 temi e il referendum oggi si riempie di significati più politici che sostanziali. Insomma un referendum pro o contro Cameron che l’ha promesso e voluto, anche (forse) per sterilizzare la crescita elettorale dello UKIP di Farage. Il Regno Unito già ora non adotta l’euro, la Bank of England non è sottoposta alla vigilanza della BCE, non è tenuta ad adottare le politiche monetarie decise a Francoforte, non aderisce al Trattato di Schengen, non rientra e non rientrerà in eventuali programmi di difesa comune, non partecipa al Meccanismo Europeo di Stabilità e non ha partecipato all’EFSF, non ha immesso sterline nei programmi LTRO e TLTRO.Il “costo” per UK per la partecipazione all’Unione Europea è stato nel 2014 pari a 11,3 miliardi di Euro ( lo 0,52% del GDP), contro trasferimenti da Bruxelles a Londra per 6.9 miliardi; quindi il saldo netto per i sudditi di sua Maestà è stato di -4.4 miliardi (lo 0,17% del GDP). Una percentuale tutto sommato residuale su un prodotto nazionale lordo che cresce da tre anni a ritmi superiori a quelli europei.

 

 

GDP %
Geo 2013 2014 2015
EU 28 0.2 1.4 2.0
EU 19 -0.3 0.9 1.7
GER 1.3 1.6 1.7
FR 0.4 0.6 1.3
ITA -1.7 -0.3 0.8
UK 2.2 2.9 2.3

Tutti i dati macroeconomici descriverono l’economia inglese come più in salute di quella degli altri stati membri.

Employment rate %
Geo 2013 2014 2015
EU 28 68.4 69.2 70.1
EU 19 67.7 68.2 69.0
GER 77.3 77.7 78.0
FR 69.4 69.5
ITA 59.7 59.9 60.5
UK 74.8 76.2 76.9

 

HICP – inflation rate –  annual average % (eurostat)
Geo 2013 2014 2015
EU 28 1.5 0.5 0.0
EU 19 1.3 0.4 0.0
GER 1.6 0.8 0.1
FR 1.0 0.6 0.1
ITA 1.2 0.2 0.1
UK 2.6 1.5 0.0

Credo che si possa affermare che le ragioni che stanno alla base della possibile uscita del Regno Unito dall’Unione non siano dunque economiche.

Più complesso valutare l’impatto del fenomeno immigrazione, probabilmente il vero terreno di scontro fra chi vorrebbe uscire dalla UE e chi vorrebbe restarci. Sul suolo britannico ci sono circa 8 milioni di cittadini stranieri residenti, di cui circa 5,5 milioni extracomunitari. I flussi migratori degli ultimi 3 anni, sempre su dati eurostat, sono stati i seguenti:

 

 

 

Total number of long-term immigrants – 2013-2015
GER 592,175 692,713 884,893
FR 327,431 332,640 339,902
ITA 350,772 307,454 277,631
UK 316,900 526,000 632,000

Come si vede, mentre per Francia e Italia c’è una sostanziale stabilità del numero dei nuovi ingressi, per Germania e Regno Unito i dati mostrano una progressione abbastanza accentuata. Ciò comporta per il Regno unito implicazioni sulla spesa pubblica, in ragione del sistema di welfare in vigore, piuttosto generoso, e i relativi criteri di accesso. L’unico parametro di finanza pubblica che desta preoccupazione è infatti quello del deficit con un disavanzo del 4.4% sul PIL.

Con l’accordo di febbraio Cameron ha ottenuto che l’accesso ai servizi da parte dei residenti stranieri sia possibile solo dopo 4 anni e che non si possano chiedere sussidi governativi per i figli all’estero.

E’ evidente quindi che le leve su cui puntano i leave siano paura dell’invasione e eccesso di spesa conseguente

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